ESG e sostenibilità: quando il modello diventa inefficiente, ideologico e poco sostenibile

Negli ultimi anni, il concetto di ESG (Environmental, Social, Governance) è diventato centrale nel linguaggio delle imprese e degli investitori. Oggi, parlare di sostenibilità non è più un’opzione, ma un requisito per accedere ai capitali, attrarre talenti e restare competitivi.

Eppure, dietro questa trasformazione, si nasconde un problema crescente: l’ESG, così come è concepito oggi, rischia di generare più inefficienze che benefici. Le aziende si trovano a fronteggiare costi elevati, metriche incoerenti e pressioni ideologiche che poco hanno a che fare con la gestione strategica d’impresa.

ESG: un’idea giusta gestita male

L’idea alla base dell’ESG è condivisibile: integrare criteri ambientali, sociali e di governance nella gestione aziendale. Ma la sua applicazione concreta è tutt’altro che chiara.

Non esistono standard univoci: le agenzie di rating ESG adottano metodi di valutazione differenti, spesso opachi. Ciò che viene considerato sostenibile da un’analisi, può non esserlo secondo un’altra. Il risultato? Le aziende devono rincorrere checklist mutevoli, report sempre più complessi e consulenze specialistiche per “rimanere in linea” – spesso senza capire bene con cosa.

I costi della sostenibilità cadono sulle imprese (e non tutte possono permetterseli)

Implementare strategie ESG richiede tempo, risorse e strutture. Le grandi multinazionali possono affrontare questo percorso con budget dedicati e team interni. Le PMI invece faticano, spesso senza alcun ritorno reale in termini di accesso al credito o vantaggi competitivi.

Il rischio? Un mercato diviso tra chi può permettersi di “essere sostenibile” (o sembrare tale) e chi, pur agendo con buonsenso, viene penalizzato per non aderire ai canoni formali del momento.

In pratica, l’ESG, da strumento di inclusione, sta diventando una barriera di accesso, con effetti distorsivi su competitività e innovazione.

ESG e cultura woke: quando la sostenibilità diventa ideologia

Sempre più spesso, i criteri ESG includono elementi di natura ideologica. Si chiede alle aziende di allinearsi a narrative identitarie, posizioni sociali e visioni del mondo che vanno ben oltre l’impatto ambientale o la trasparenza di governance.

Il rischio non è solo quello di snaturare la mission aziendale, ma di forzare le imprese a una forma di comunicazione conforme a una cultura dominante, in particolare quella legata alla cosiddetta “cultura woke”.

In questo scenario, chi non si adegua non è semplicemente “non in linea”: è visto come eticamente inaccettabile. E questo è un problema, non una soluzione.

ESG: chi decide cosa è giusto?

L’altro nodo critico è il potere crescente degli attori che definiscono cosa è “sostenibile”.

Agenzie di rating, fondi di investimento, gruppi di pressione culturale e finanziaria: soggetti non eletti, spesso opachi, che esercitano un’influenza enorme sul futuro delle imprese.

Ma chi controlla questi controllori? Qual è la trasparenza delle metriche? Quale il margine per chi vuole proporre una sostenibilità pragmatica, adattata al proprio contesto industriale?

Cambiamenti in corso: tra Trump, semplificazioni europee e caos normativo

Negli Stati Uniti, l’aria sta già cambiando. Con il ritorno di Trump al centro del dibattito politico, molti Stati americani stanno riducendo il peso delle politiche ESG, quando non le ostacolano apertamente. Diversi fondi pubblici hanno già iniziato a disinvestire da gestori che usano criteri ESG per motivi ideologici.

In Europa, la pressione di settori industriali e associazioni di categoria ha spinto le istituzioni ad avviare una semplificazione normativa. Ma è un processo a “macchia di leopardo”, privo di visione sistemica, che rischia di produrre ancora più confusione.

Senza un cambio di passo coordinato, rischiamo un contesto normativo instabile, dove la gestione ESG diventa un rompicapo piuttosto che uno strumento di miglioramento.

Conclusione: ripensare la sostenibilità con pragmatismo

Il futuro dell’ESG e della sostenibilità aziendale non può basarsi su pressioni ideologiche o su regole pensate solo per le grandi corporate.

Servono criteri chiari, proporzionati, adattabili ai diversi contesti economici. E soprattutto serve pragmatismo: la sostenibilità deve generare valore reale, non solo reputazionale.

In questo senso, il ruolo di chi fa consulenza strategica, anche in modalità fractional manager, è sempre più centrale: aiutare le imprese a navigare tra vincoli normativi, aspettative degli stakeholder e realtà operativa, trovando un equilibrio tra conformità e visione.